storielle

Brevi storie e storielle per riflettere. Racconti significativi, novelle, racconti, perle di saggezza, piccole fiabe e favole per bambini, giovani, adulti, anziani… per tutti!

L’ELEFANTE

C’erano una volta sei saggi, che però erano ciechi.
In città fu condotto un elefante ed essi vollero conoscerlo, perchè non ne avevano mai visto uno. Essendo ciechi decisero di conoscerlo toccandolo.
Il primo toccò l’orecchio grande e piatto e disse: “è; come un ventaglio”.
Un altro toccò le zampe e disse: “è; come un albero”.
Il terzo, toccando la coda, disse: “sbagliate entrambi: è; come una fune”.
Il quarto toccò le zanne e disse: “macchè;, è; come una lancia”.
Il quinto, toccando il fianco dell’animale disse. “ma no! E’ una muraglia”.
L’ultimo, afferrata la proboscide, disse: “avete tutti torto, è; come un serpente”.
I sei saggi ciechi si accapigliarono per un’ora gridando:
“Ventaglio!Albero!Fune!Lancia!Muraglia!Serpente!”
E non riuscirono a capire come fosse fatto un elefante!

LE STELLE MARINE

Una tempesta terribile si abbattè sul mare. Lame affilate di vento gelido trafiggevano l’acqua e la sollevavano in ondate gigantesche che si abbattevano sulla spiaggia come colpi di maglio, o come vomeri d’acciaio aravano il fondo marino scaraventando le piccole bestiole del fondo, i crostacei e i piccoli molluschi, a decine di metri dal bordo del mare.
Quando la tempesta passò, rapida come era arrivata, l’acqua si placò e si ritirò. Ora la spiaggia era una distesa di fango in cui si contorcevano nell’agonia migliaia e migliaia di stelle marine. Erano tante che la spiaggia sembrava colorata di rosa.
Il fenomeno richiamò molta gente da tutte le parti della costa. Arrivarono anche delle troupe televisive per filmare lo strano fenomeno.
Le stelle marine erano quasi immobili. Stavano morendo.
Tra la gente, tenuto per mano dal papà, c’era anche un bambino che fissava con gli occhi pieni di tristezza le piccole stelle marine. Tutti stavano a guardare e nessuno faceva niente.
All’improvviso, il bambino lasciò la mano del papà, si tolse le scarpe e le calze e corse sulla spiaggia. Si chinò, raccolse con le piccole mani tre piccole stelle del mare e, sempre correndo, le portò nell’acqua. Poi tornò indietro e ripetè; l’operazione.
Dalla balaustrata di cemento, un uomo lo chiamò: “Ma che fai ragazzino?”.
“Ributto in mare le stelle marine. Altrimenti muoiono tutte sulla spiaggia” rispose il bambino senza smettere di correre.
“Ma ci sono migliaia di stelle marine su questa spiaggia; non puoi certo salvarle tutte. Sono troppe!” gridò l’uomo. “E questo succede su centinaia di altre spiagge lungo la costa! Non puoi cambiare le cose!”.
Il bambino sorrise, si chinò a raccogliere un’altra stella di mare e gettandola in acqua rispose: “Ho cambiato le cose per questa qui!”.
L’uomo rimase un attimo in silenzio, poi si chinò, si tolse scarpe e calze e scese in spiaggia. Cominciò a raccogliere stelle marine e a buttarle in acqua. Un istante dopo scesero due ragazze ed erano in quattro a buttare stelle marine nell’acqua.
Qualche minuto dopo erano in cinquanta, cento, duecento, centinaia di persone che buttavano stelle di mare nell’acqua.
Così furono salvate tutte.

LE PIETRE DELLA VITA

Un esperto in time management, tenendo un seminario ad un gruppo di studenti, usò un’illustrazione che rimase per sempre impressa nelle loro menti. Per colpire nel segno il suo uditorio di menti eccellenti, propose un quiz, poggiando sulla cattedra di fronte a sè un barattolo di vetro, di quelli solitamente usati per la conserva di pomodoro. Chinatosi sotto la
cattedra, tirò fuori una decina di pietre, di forma irregolare, grandi circa un pugno, e con attenzione, una alla volta, le infilò nel barattolo.
Quando il barattolo fu riempito completamente e nessun’altra pietra poteva essere aggiunta, chiese alla classe: “Il barattolo è; pieno?”. Tutti risposero di sì. “Davvero?”. Si chinò di nuovo sotto il tavolo e tirò fuori un secchiello di ghiaia. Versò la ghiaia agitando leggermente il barattolo, di modo che i sassolini scivolassero negli spazi tra le pietre. Chiese di nuovo, “Adesso il barattolo è; pieno?”. A questo punto, la classe aveva capito.
“Probabilmente no” rispose uno. “Bene” replicò l’insegnante. Si chinò sotto il tavolo e prese un secchiello di sabbia, la versò nel barattolo, riempiendo tutto lo spazio rimasto libero. Di nuovo, “Il barattolo è; pieno?”.
“No!” rispose in coro la classe. “Bene!” riprese l’insegnante. Tirata fuori una brocca d’acqua, la versò nel barattolo riempiendolo fino all’orlo.
“Qual’ è; la morale della storia?”, chiese a questo punto. Una mano si levò all’istante “La morale è;, non importa quanto fitta di impegni sia la tua agenda, se lavori sodo ci sarà sempre un buco per aggiungere qualcos’altro!”. “No, il punto non è; questo”. “La verità che questa illustrazione ci insegna è;: se non metti dentro prima le pietre, non ce le metterai mai.” Quali sono le “pietre” della tua vita? I tuoi figli, i tuoi cari, il tuo grado di istruzione, i tuoi sogni, una giusta causa.
Insegnare o investire nelle vite di altri, fare altre cose che ami, avere tempo per te stesso, la tua salute, la persona della tua vita. Ricorda di mettere queste “pietre” prima, altrimenti non entreranno mai. Se ti esaurisci per le piccole cose (la ghiaia, la sabbia), allora riempirai la tua vita con cose minori di cui ti preoccuperai non dando mai veramente “quality time” alle cose grandi e importanti (le pietre). Questa sera, o domani mattina, quando rifletterai su questa storiella, chiediti “Quali sono le pietre nella mia vita?”. Metti nel barattolo prima quelle.

AMORE E PAZZIA

Raccontano che un giorno si riunirono in un luogo della terra tutti i sentimenti e le qualità degli uomini. Quando la noia si fu presentata per la terza volta, la pazzia, come sempre un po’ folle propose: “Giochiamo a nascondino!”
L’interesse alzò un sopracciglio e la curiosità senza potersi contenere chiese: “A nascondino? Di che si tratta?”
“E’ un gioco, – spiegò la pazzia – in cui io mi copro gli occhi e mi metto a contare fino a 1000000 mentre voi vi nascondete e, quando avrò terminato di contare, il primo di voi che scopro prenderà il mio posto per continuare il gioco.”
L’entusiasmo si mise a ballare, accompagnato dall’euforia. L’allegria fece tanti salti che finì per convincere il dubbio e persino l’apatia alla quale non interessava mai niente… Però non tutti vollero partecipare. La verità
preferì non nascondersi. Perchè, se poi alla fine tutti la scoprono? La superbia pensò che fosse un gioco molto sciocco (in fondo ciò che le dava fastidio era che non fosse stata una sua idea) e la codardia preferì non arrischiarsi.
“Uno, due, tre…” – cominciò a contare la pazzia.
La prima a nascondersi fu la pigrizia che si lasciò cadere dietro la prima pietra che trovò sul percorso. La fede volò in cielo e l’invidia si nascose all’ombra del trionfo che con le proprie forze era riuscito a salire sulla cima dell’albero più alto. La generosità quasi non riusciva a nascondersi. Ogni posto che trovava le sembrava meraviglioso per qualcuno dei suoi amici.
Che dire di un lago cristallino? Ideale per la bellezza. Le fronde di un albero? Perfetto per la timidezza. Le ali di una farfalla?
Il migliore per la voluttà. Una folata di vento? Magnifico per la libertà. Così la generosità finì per nascondersi in un raggio di sole. L’egoismo, al contrario trovò subito un buon nascondiglio, ventilato, confortevole e tutto per sè. La menzogna si nascose sul fondale degli oceani (non è; vero, si nascose dietro l’arcobaleno). La passione e il desiderio al centro dei vulcani. L’oblio…non mi ricordo…dove? Quando la pazzia arrivò a contare 999999 l’amore non aveva ancora trovato un posto dove nascondersi poichè li trovava tutti occupati, finchè scorse un cespuglio di rose e alla fine decise di nascondersi tra i suoi fiori.
“Un milione!” – contò la pazzia. E cominciò a cercare. La prima a comparire fu la pigrizia, solo a tre passi da una pietra. Poi udì la fede, che stava discutendo con Dio su questioni di teologia, e sentì vibrare la passione e il desiderio dal fondo dei vulcani. Per caso trovò l’invidia e potè dedurre dove fosse il trionfo. L’egoismo non riuscì a trovarlo. Era fuggito dal suo nascondiglio essendosi accorto che c’era un nido di vespe. Dopo tanto camminare, la pazzia ebbe sete e nel raggiungere il lago scoprì la bellezza. Con il dubbio le risultò ancora più facile, giacchè lo trovò seduto su uno steccato senza avere ancora deciso da che lato nascondersi. Alla fine trovò un po’ tutti: il talento nell’erba fresca, l’angoscia in una grotta buia, la menzogna dietro l’arcobaleno e infine l’oblio che si era già dimenticato che stava giocando a nascondino. Solo l’amore non le appariva da nessuna parte. La pazzia cercò dietro ogni albero, dietro ogni pietra, sulla cima delle montagne e quando stava per darsi per vinta scorse il cespuglio di rose e cominciò a muoverne i rami.
Quando, all’improvviso, si udì un grido di dolore: le spine avevano ferito gli occhi dell’amore…! La pazzia non sapeva più che cosa fare per discolparsi; pianse, pregò, implorò, domandò perdono e alla fine gli promise che sarebbe diventata la sua guida. Da allora, da quando per la prima volta si giocò a nascondino sulla terra, l’amore è; cieco e la pazzia sempre lo accompagna.

LE COSE NON SONO SEMPRE QUELLE CHE SEMBRANO…

Due angeli viaggiatori si fermarono per passare la notte nella casa di una famiglia ricca.
Era una famiglia di persone molto avare che si rifiutarono di far dormire i due angeli nella camera degli ospiti. Infatti concessero loro solo un piccolo spazio fuori, sul duro e freddo pavimento del pergolato davanti alla casa. Mentre gli angeli si preparavano come potevano un giaciglio per terra, il più vecchio dei due vide un buco nel muro e lo riparò. Quando l’angelo più giovane gliene chiese il motivo lui rispose soltanto: “le cose non sono sempre quelle che sembrano.”
La notte dopo la coppia di angeli cercò riparo nella casa di una famiglia molto povera ma molto ospitale dove furono accolti da un contadino e da sua moglie. Dopo aver diviso con gli angeli il seppur scarso cibo che avevano, i contadini insistettero per cedere agli angeli i loro letti, dove finalmente gli angeli viaggiatori poterono riposare comodamente. La mattina dopo quando il sole sorse, gli angeli trovarono l’uomo e sua moglie in lacrime. La loro unica mucca, la loro unica fonte di sostentamento, giaceva morta nel campo. Il giovane angelo si infuriò e chiese al più vecchio come avesse potuto lasciar accadere una cosa del genere. “Al primo uomo, che pure aveva tutto, hai fatto un favore”, lo accusò; “questa famiglia benchè avesse pochissimo è; stata pronta a dividere tutto con noi, e tu hai lasciato che la loro mucca morisse!” “Le cose non sono sempre quelle che sembrano” replicò l’angelo più anziano. “Quando eravamo nel cortile della villa, ho notato che c’era dell’oro nascosto nel muro e che si sarebbe potuto scoprirlo grazie a quel piccolo buco, in modo tale che avrebbero avuto modo di trovare anche quella ricchezza. La notte scorsa, poi, mentre dormivamo nel letto del contadino, venne l’angelo della morte per portarsi via sua moglie. Ed io invece di lei gli ho dato la mucca.”
Le cose non sono sempre quelle che sembrano. Qualche volta questo è; precisamente quello che succede quando le cose sembrano non andare come dovrebbero…

LA PORTA PICCOLA E’ SEMPRE APERTA (perdono)

Intorno alla stazione principale di una grande citta’, si dava appuntamento, ogni giorno e ogni notte, una folla di relitti umani: barboni, ladruncoli, marocchini e giovani drogati. Di tutti i tipi e di tutti i colori. Si vedeva bene che erano infelici e disperati. Barbe lunghe, occhi cisposi, mani tremanti, stracci, sporcizia.
Più che di soldi, avevano tutti bisogno di un po’ di consolazione e di coraggio per vivere; ma queste cose oggi non le sa dare quasi più nessuno.
Colpiva, tra tutti, un giovane, sporco e con i capelli lunghi e trascurati, che si aggirava in mezzo agli altri poveri naufraghi della città come se avesse una sua personale zattera di salvezza.
Quando le cose gli sembravano proprio andare male, nei momenti di solitudine e di angoscia più nera, il giovane estraeva dalla sua tasca un bigliettino unto e stropicciato e lo leggeva. Poi lo ripiegava accuratamente e lo rimetteva in tasca.
Qualche volta lo baciava, se lo appoggiava al cuore o alla fronte. La lettura del bigliettino faceva effetto subito.
Il giovane sembrava riconfortato, raddrizzava le spalle, riprendeva coraggio.
Che cosa c’era scritto su quel misterioso biglietto? Sei piccole parole soltanto: “La porta piccola è; sempre aperta”. Tutto qui. Era un biglietto che gli aveva mandato suo padre.
Significava che era stato perdonato e in qualunque momento avrebbe potuto tornare a casa. E una notte lo fece.
Trovo’ la porta piccola del giardino di casa aperta. Salì le scale in silenzio e si infilo’ nel suo letto.
Il mattino dopo, quando si sveglio, accanto al letto, c’era suo padre. In silenzio, si abbracciarono.
Il biglietto misterioso spiega che c’e’ sempre una piccola porta aperta per l’uomo.

I CHICCHI DI GRANO

C’era un contadino che aveva alcuni sacchi di frumento. Un giorno li rovesciò formando una montagna di chicchi. Un chicco curioso gli chiese: “Ma dove ci porti?” Il contadino rispose: “Vi porterò in un campo e vi seminerò per terra!”
I chicchi risposero: “Ma è; vero quello che si racconta, che nel campo ci sarà freddo, acqua e anche gelo e che staremo soli, sotto terra, per alcuni mesi?”
“Certamente” disse il contadino “ma poi comincerete a spuntare come delle piccole piante e poi sentirete il vento e l’aria calda del sole. e poi sulla vostra piccola pianta nasceranno tanti piccoli chicchi di grano.”
I chicchi si divisero in due gruppi: quelli che accettavano di essere seminati nella terra e quelli che volevano rimanere dentro nel granaio per stare al caldo, tutti insieme. La mattina, all’alba il contadino prese i numerosi chicchi che avevano accettato di essere seminati.
Nel magazzino restò solo un grosso sacco: passarono nove mesi e i chicchi rinchiusi nel
sacco seccarono e morirono, senza poter vedere il contadino che riempiva il magazzino di sacchi con tanti nuovi chicchi di grano…

IL BAMBINO E LA SORGENTE

C’era un paese che rimase senza acqua perchè; tutte le sue fonti si erano prosciugate. Gli anziani si riunirono per decidere come si dovesse risolvere il problema. In queste riunione c’era sempre un bambino con la mano alzata che voleva parlare: nessuno però gli dava Ascolto e quindi non riusciva mai a parlare. Dopo un anno, quando gli anziani avevano deciso di abbandonare il paese perchè era senza acqua, qualcuno in assemblea decise di lasciare parlare il bambino. Lui raccontò che alcuni mesi prima, preso da una grande sete, si era incamminato al buio e la sua sete lo aveva guidato a trovare una sorgente di acqua limpida e fresca. Lui ora tornava ogni notte a questa sorgente. Questo lo voleva dire a tutti, ma nessuno lo lasciava mai parlare. Gli abitanti di quel paese allora si fidarono del bambino e si incamminarono dietro di lui.

PRENDIMI LA MANO

Un papà e il suo bambino camminavano sotto i portici di una via cittadina su cui si affacciavano negozi e grandi magazzini. Il papà portava una borsa di plastica piena di pacchetti e sbuffò, rivolto al bambino. “Ti ho preso la tuta rossa, ti ho preso il robot trasformabile ti ho preso la bustina dei calciatori… Che cosa devo ancora prenderti?”.
“Prendimi la mano” rispose il bambino.

I CHIODI NELLO STECCATO

C’era una volta un ragazzo con un brutto carattere. Suo padre gli diede un sacchetto di chiodi e gli disse di piantarne uno nello steccato del giardino ogni volta che avesse perso la pazienza e litigato con qualcuno. Il primo giorno il ragazzo piantò 37 chiodi nello steccato. Nelle settimane seguenti, imparò a controllarsi e il numero di chiodi piantati nello steccato diminuì giorno per giorno: aveva scoperto che era più ‘ facile controllarsi che piantare i chiodi. Finalmente arrivo ‘ un giorno in cui il ragazzo non piantò nessun chiodo nello steccato. Allora andò dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse di levare un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non aveva perso la pazienza e litigato con qualcuno. I giorni passarono e finalmente il ragazzo potè dire al padre che aveva levato tutti i chiodi dallo steccato. Il padre porto ‘ il ragazzo davanti allo steccato e gli disse:”Figlio mio, ti sei comportato bene, ma guarda quanti buchi ci sono nello steccato. Lo steccato non sarà ‘ mai più come prima. Quando litighi con qualcuno e gli dici qualcosa di brutto, gli lasci una ferita come queste. Puoi piantare un coltello in un uomo, e poi levarlo, ma rimarrà sempre una ferita; non importa quante volte ti scuserai, la ferita rimarrà. Una ferita verbale fa male quanto una fisica. Gli amici sono gioielli rari, ti fanno sorridere e ti incoraggiano. Sono pronti ad ascoltarti quando ne hai bisogno, ti sostengono e ti aprono il loro cuore.

LE QUATTRO CANDELE (speranza)

Le quattro candele, bruciano, si consumano lentamente.
Il luogo era talmente silenzioso, che si poteva ascoltare la loro conversazione…
La prima diceva: “Io sono la pace, ma gli uomini non riescono a mantenermi: penso proprio che non mi resti altro da fare che spegnermi!” Così fu, e a poco a poco, la candela si lasciò spegnere completamente.
La seconda diceva: “Io sono la fede, purtroppo non servo a nulla. Gli uomini non ne vogliono sapere di me, e per questo motivo non ha senso che io resti accesa.” Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense.
Triste triste, la terza candela, a sua volta disse: “Io sono l’amore, non ho la forza per continuare a rimanere accesa. Gli uomini non mi considerano e non comprendono la mia importanza. Essi odiano perfino coloro che più li amano, i loro familiari.” E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere.
Inaspettatamente… un bimbo in quel momento entrò nella stanza e vide le tre candele spente. Impaurito per la semioscurità disse: “Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio!”.
E così dicendo scoppiò in lacrime. Allora la quarta candela impietositasi disse:
“Non temere, non piangere: finchè io sarò accesa, potremo sempre riaccendere le altre tre candele: io sono la speranza”.
Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre.

LA FORESTA

Durante le vacanze, un uomo era uscito a passeggio in una foresta che si estendeva ai margini del villaggio dove si trovava. Errò per un paio d’ore e si perse. Girò a lungo nel tentativo di trovare la strada per tornare al villaggio, provò tutti i sentieri, ma nessuno lo portava fuori dalla foresta.
Improvvisamente si imbattè in un’altra persona che come lui stava camminando nella foresta e gridò: “Grazie a Dio c’è; un altro essere umano. Mi può indicare la strada per tornare in paese?”.
L’altro uomo gli rispose: “No, purtroppo anch’io mi sono perso. Ma c’è; un modo per poterci essere d’aiuto: è; quello di dirci quali sentieri abbiamo già provato inutilmente. Questo ci aiuterà a trovare quello che ci porterà fuori”.

L’INCONTRO

“Ebbi lo scompartimento del treno tutto per me. Poi salì una ragazza”, raccontava un giovane indiano cieco. “L’uomo e la donna venuti ad accompagnarla dovevano essere i suoi genitori. Le fecero molte raccomandazioni. Dato che ero già cieco allora, non potevo sapere che aspetto avesse la ragazza, ma mi piaceva il suono della sua voce”.
“Va a Dehra Dun?”, chiesi mentre il treno usciva dalla stazione. Mi chiedevo se sarei riuscito a impedirle di scoprire che non ci vedevo. Pensai: se resto seduto al mio posto, non dovrebbe essere troppo difficile.
“Vado a Saharanpur”, disse la ragazza. “Là viene a prendermi mia zia. E lei dove va?”.
“A Dehra Dun, e poi a Mussoorie”, risposi.
“Oh, beato lei! Vorrei tanto andare a Mussoorie. Adoro la montagna. Specialmente in ottobre”.
“Sì è; la stagione migliore”, dissi, attingendo ai miei ricordi di quando potevo vedere. “Le colline sono cosparse di dalie selvatiche, il sole è; delizioso, e di sera si può star seduti davanti al fuoco a sorseggiare un brandy. La maggior parte dei villeggianti se n’è; andata, e le strade sono silenziose e quasi deserte”.
Lei taceva, e mi chiesi se le mie parole l’avessero colpita, o se mi considerasse solo un sentimentaloide. Poi feci un errore. “Com’è; fuori?” chiesi.
Lei però non sembrò trovare nulla di strano nella domanda. Si era già accorta che non ci vedevo? Ma le parole che disse subito dopo mi tolsero ogni dubbio. “Perchè non guarda dal finestrino?”, mi chiese con la massima naturalezza.
Scivolai lungo il sedile e cercai col tatto il finestrino. Era aperto, e io mi voltai da quella parte fingendo di studiare il panorama. Con gli occhi della fantasia, vedevo i pali telegrafici scorrere via veloci. “Ha notato”, mi azzardai a dire “che sembra che gli alberi si muovano mentre noi stiamo fermi?”.
“Succede sempre così”, fece lei.
Mi girai verso la ragazza, e per un po’ rimanemmo seduti in silenzio. “Lei ha un viso interessante” dissi poi. Lei rise piacevolmente, una risata chiara e squillante. “E’ bello sentirselo dire”, fece. “Sono talmente stufa di quelli che mi dicono che ho un bel visino!”.
“Dunque, ce l’hai davvero una bella faccia”, pensai, e a voce alta proseguii:
“Beh, un viso interessante può anche essere molto bello”.
“Lei è; molto galante”, disse. “Ma perchè è; così serio?”.
“Fra poco lei sarà arrivata”, dissi in tono piuttosto brusco.
“Grazie al cielo. Non sopporto i viaggi lunghi in treno”.
Io invece sarei stato disposto a rimaner seduto all’infinito, solo per sentirla parlare. La sua voce aveva il trillo argentino di un torrente di montagna. Appena scesa dal treno, avrebbe dimenticato il nostro breve incontro; ma io avrei conservato il suo ricordo per il resto del viaggio e anche dopo.
Il treno entrò in stazione. Una voce chiamò la ragazza che se ne andò, lasciando dietro di sè solo il suo profumo.
Un uomo entrò nello scompartimento, farfugliando qualcosa. Il treno ripartì. Trovai a tentoni il finestrino e mi ci sedetti davanti, fissando la luce del giorno che per me era tenebra. Ancora una volta potevo rifare il mio giochetto con un nuovo compagno di viaggio.
“Mi spiace di non essere un compagno attraente come quella che è; appena uscita”, mi disse lui, cercando di attaccar discorso.
“Era una ragazza interessante”, dissi io. “Potrebbe dirmi… aveva i capelli lunghi o corti?”.
“Non ricordo”, rispose in tono perplesso. “Sono i suoi occhi che mi sono rimasti impressi, non i capelli. Aveva gli occhi così belli! Peccato che non le servissero affatto… era completamente cieca. Non se n’era accorto?”.

I DUE BOSCAIOLI

Due boscaioli lavoravano nella stessa foresta ad abbattere alberi. I tronchi erano imponenti, solidi e tenaci. I due boscaioli usavano le loro asce con identica bravura,ma con una diversa tecnica: il primo colpiva il suo albero con incredibile costanza, un colpo dietro l’altro, senza fermarsi se non per riprendere fiato rari secondi. Il secondo boscaiolo faceva una discreta sosta ogni ora di lavoro.
Al tramonto, il primo boscaiolo era a metà del suo albero. Aveva sudato sangue e lacrime e non avrebbe resistito cinque minuti di più. Il secondo era incredibilmente al termine del suo tronco.
Avevano cominciato insieme e i due alberi erano uguali!
Il primo boscaiolo non credeva ai suoi occhi. “Non ci capisco niente! Come hai fatto ad andare così veloce se ti fermavi tutte le ore?”. L’altro sorrise: “Hai visto che mi fermavo ogni ora. Ma quello che non hai visto è; che approfittavo della sosta per affilare la mia ascia”. Top

UN BICCHIERE D’ACQUA O IL MARE

Un uomo si sentiva perennemente oppresso dalle difficoltà della vita e se ne lamentò con un famoso maestro di spirito. “Non ce la faccio più! Questa vita mi è; insopportabile”. Il maestro prese una manciata di cenere e la lasciò cadere in un bicchiere pieno di limpida acqua da bere che aveva sul tavolo, dicendo: “Queste sono le tue sofferenze”. Tutta l’acqua del bicchiere s’intorbidì e s’insudiciò.
Il maestro la buttò via. Il maestro prese un’altra manciata di cenere, identica alla precedente, la fece vedere all’uomo, poi si affacciò alla finestra e la buttò nel mare. La cenere si disperse in un attimo e il mare rimase esattamente com’era prima. “Vedi?” spiegò il maestro. “Ogni giorno devi decidere se essere un bicchiere d’acqua o il mare”.

L’ARAGOSTA

Tanto tempo fa, quando il mondo era stato creato da poco, una certa aragosta decise che il Creatore aveva fatto un errore.
Così fissò un appuntamento per discutere con Lui la questione.
“Con tutto il dovuto rispetto”, disse l’aragosta, “vorrei protestare per il modo in cui hai disegnato il mio guscio. Vedi, non appena mi abituo al mio rivestimento esterno, ecco che devo abbandonarlo per un altro scomodo, e oltretutto è; una perdita di tempo”.
Al che il Creatore replicò: “Capisco, ma ti rendi conto che è; proprio il lasciare un guscio che ti permette di andare a crescere dentro un altro?”
“Ma io mi piaccio così come sono”, disse l’aragosta.
“Hai proprio deciso così?”, chiese il Creatore. “Certo”, rispose l’aragosta. “Molto bene”, sorrise il Creatore, “d’ora in poi il tuo guscio non cambierà e tu continuerai ad essere così come sei ora”. “Molto gentile da parte Tua” disse l’aragosta e se ne andò.
L’aragosta era molto contenta di poter continuare ad indossare lo stesso vecchio guscio, ma giorno dopo giorno quel che prima era una leggera e confortevole protezione cominciò a diventare ingombrante e scomodo. Alla fine arrivò al punto di non riuscire neanche più a respirare dentro al vecchio guscio. Allora, con un grosso sforzo, tornò a parlare al Creatore.
“Con tutto il rispetto”, sospirò l’aragosta “contrariamente a quello che mi avevi promesso, il mio guscio non è; rimasto lo stesso. Continua a restringersi sempre di più”.
“No di certo”, disse il Creatore, “il tuo guscio potrà essere diventato più duro col passare del tempo ma è; rimasto della stessa misura. Tu sei cambiata dentro, all’interno del guscio”.
Il Creatore continuò: “Vedi, tutto cambia continuamente. Nessuno resta lo stesso. E’ così che ho creato le cose. La possibilità più interessante che tu hai è; quella di poter lasciare il tuo vecchio guscio, quando cresci”.
“Ah… Capisco!”, disse l’aragosta, “ma devi ammettere che ciò è; abbastanza scomodo”.
“Si”, rispose il Creatore, “ma ricorda… ogni crescita porta con sè la possibilità di un disagio… insieme alla grande gioia nello scoprire nuovi aspetti di sè stesso. Ma non si può avere l’una senza l’altra”.
“Tutto ciò è; molto saggio”, disse l’aragosta.
“Se permetti, ti dirò qualcosa ancora”, disse il Creatore. “Te ne prego!”, rispose l’aragosta.
“Ogni volta che lascerai il tuo vecchio guscio e sceglierai di crescere, costruirai una forza nuova in te. E in questa forza troverai nuova capacità di amare te stessa e di amare coloro che ti sono accanto… di amare la vita stessa.

LA CISTERNA SCREPOLATA

C’erano due cisterne molto diverse, a distanza di qualche decina di metri.
Si guardavano e, qualche volta, facevano un po’ di conversazione. La prima cisterna era perfetta. Le pietre che la formavano erano salde e ben scompaginate. A tenuta stagna. Non una goccia della preziosa acqua era mai stata persa per causa sua.
La seconda presentava invece fenditure, come delle ferite, dalle quali fuggivano rivoletti di acqua. La prima, fiera e superba della sua perfezione, si stagliava nettamente. Solo qualche insetto osava avvicinarsi, o qualche uccello.
L’altra, invece, era coperta di arbusti fioriti, cespugli e more, che si dissetavano all’acqua che usciva dalle sue screpolature. Gli insetti ronzavano continuamente intorno a lei e gli uccelli facevano il nido sui bordi; non era perfetta, ma si sentiva tanto felice.

L’INVITO

Il signore di un castello diede una gran festa, a cui invitò tutti gli abitanti del villaggio aggrappato alle mura del maniero. Ma le cantine del nobiluomo, pur essendo generose, non avrebbero potuto soddisfare la prevedibile e robusta sete di una schiera così folta di invitati.
Il signore chiese allora un favore agli abitanti del villaggio: “metteremo al centro del cortile dove si terrà il banchetto un capiente barile. Ciascuno porti il vino che può e lo versi nel barile. Tutti poi vi potranno attingere e ci sarà da bere per tutti”.
Un uomo del villaggio prima di partire per il castello si procurò un orcio e lo riempì d’acqua, pensando: “un po’ d’acqua nel barile passerà inosservata… nessuno se ne accorgerà!”
Arrivato alla festa, versò il contenuto del suo orcio nel barile comune e poi sedette a tavola. Quando i primi andarono ad attingere, dallo spinotto del barile uscì solo acqua.
Tutti avevano pensato allo stesso modo. E avevano portato solo acqua.

LE DUE SORGENTI (DARE)

La montagna si eleva verso il sole. Ma la montagna pesa. è; fatta di sassi. In qualche recesso delle sue viscere nacquero un giorno due piccole sorgenti d’acqua limpida che cercavano di uscire all’aperto. Ma la montagna non cedeva. Le opprimeva, le soffocava. Durò un bel po’ di tempo, finchè, facendosi largo a poco a poco, le sorgenti riuscirono a venire alla luce ai piedi della montagna.
Com’erano stanche! Ma non c’era tempo per riposarsi. Appena erano scaturite dalla terra sentirono delle grida provenire dal muschio, dall’erba, dai fiorellini, dalle rose alpine: “Dateci da bere! Dateci da bere!”. “Fossi matta!”, disse la prima sorgente. “Ho faticato senza sosta laggiù sottoterra, mentre voi, pigri, ve ne stavate al sole. Non vi darò proprio niente!”.
“Non ci darai niente?”, disse il muschio piccato. “E allora noi non ti lasceremo passare”. “Ti sbarreremo la strada con le nostre numerose radici”, dichiarò l’erba. “Ti copriremo, così nessuno ti troverà”, minacciarono i cespugli di rose alpine e di rovo.
La seconda sorgente fu più condiscendente. “Bevi, sorella erba, però fatti da parte perchè io possa proseguire il mio cammino!”. Bevvero un poco anche i cespugli ma si tennero fuori dalla corrente. Il muschio succhiò l’acqua soltanto da una parte. “A me basta solo inumidire la radice”, disse la rosa alpina. “Corri pure avanti!”.
La sorgente correva. Dava da bere a tutte le piante e tutte le cedevano il passo. E siccome correva molto rapidamente, la gola della montagna dalla quale usciva si puliva e si allargava sempre più. La sua acqua era fresca e limpida come cristallo.
Rotolava giù dalla montagna nella valle, saltando sopra i sassi, bagnando i prati, lambendo le radici dei salici e più si dava a tutti e più diventava forte e impetuosa. Lei stessa non sapeva come. Le piante l’amavano e lasciavano che altre sorgenti s’unissero a lei. Così essa divenne un grande fiume nel quale vivevano numerosissimi pesci e navigavano tanti battelli.
Alla fine arrivò al mare. Quando giunse alla foce, l’azzurro padre Oceano la prese fra le sue braccia e la baciò sulla fronte. “E tua sorella? Dov’è; tua sorella sorgente?”, chiese. “Ah, padre! Purtroppo è; diventata paludosa, marcia e puzzolente”. “Così è; la vita, figliola mia”, disse il padre Oceano. “Tua sorella non voleva dare agli altri ciò che aveva ricevuto. Vedi? Anch’io oggi ti ricevo in restituzione del vapore che da me è; salito verso la montagna. La vita è; dare. Tenere per se è; la morte”.

IL FALCO NEL POLLAIO (L’ANIMA E IL CORPO)

Un falco era stato catturato da un contadino e viveva legato per una zampa nell’aia di un cascinale. Non si era rassegnato a vivere come un qualunque pollo. Aveva cominciato a dare strattoni su strattoni alla corda che lo teneva avvinto ad un robusto trave del pollaio. Fissava il cielo azzurro e partiva con tutte le sue forze. Inesorabile, la corda lo tirava a terra. Provò e riprovò per settimane, finchè la pelle della zampa fu tutta lacerata e le belle ali rovinate.
Alla fine si era abituato. Dopo qualche mese trovava di suo gradimento anche il mangime dei polli. Si accontentò di razzolare. Così non si accorse che le piogge autunnali e la neve dell’inverno avevano fatto marcire la corda che lo legava a terra.
Sarebbe bastato un ultimo modesto strattone e il falco sarebbe tornato in libertà, padrone del cielo.
Ma non lo diede più. Il nostro corpo fatica anche solo a salire una rampa di scale. Ma la nostra anima ha le ali. E il cielo è; nostro.

LA FORMICA N. 49.783.511 (GUARDARE IL CIELO)

Un formicaio ai piedi di un vecchio abete. Milioni di formiche nere corrono senza sosta, perfettamente organizzate. Sezione trasporto aghi e foglie; sezione ricerca semi, insetti, larve; sezione allevamento e cura piccoli; comitato difesa dagli assalti…
Un giorno la formica n. 49.783.511 si fermò. Ansimando s’appoggiò al lungo ago che stava trascinando e alzò lo sguardo. Si sentiva svenire… abituata a scansare i fili d’erba, i sassolini, i bruchi, ora i suoi occhi si smarrivano nell’azzurro immenso del cielo, il cuore le scoppiava d’emozione guardando il grande tronco, i rami ordinati, il verde brillante.
“N. 49.783.511 – gridò il capo settore – gli altri sgobbano e tu poltrisci! T’assegno un quarto d’ora supplementare!”.
La sera la formica n. 49.783.511 fece il recupero di lavoro. Poi mentre tutte s’infilavano nelle tane, restò fuori e scoprì le stelle. Un incanto!
Tutta la notte ebbe gli occhi pieni di luce. Da allora i turni supplementari aumentavano, ma lei non si preoccupava. Diceva a tutti: “Alzate gli occhi. c’è; qualcosa di grande sopra di noi, non possiamo portare solo larve e semi. Non avete mai guardato nemmeno l’abete!”.
La prendevano in giro: “Tu guardi e guardi, ma come riempiamo le riserve di cibo? Chi ripara la casa quando piove?”.
La formica n. 49.783.511 lavorava, s’impegnava, rendeva bello il suo formicaio. Ma brontolavano lo stesso: “Se guardare il cielo fosse utile, dovresti essere più brava di noi, invece sei anche tu come noi. Le stelle non servono a niente”.

PER CHI CAMMINI?

Una storia ebraica narra di un rabbino saggio e timorato di Dio che, una sera, dopo una giornata passata a consultare i libri delle antiche profezie, decise di uscire per la strada a fare una passeggiata distensiva.
Mentre camminava lentamente per una strada isolata, incontrò un guardiano che camminava avanti e indietro, con passi lunghi e decisi, davanti alla cancellata di un ricco podere.
“Per chi cammini, tu?”, chiese il rabbino, incuriosito.
Il guardiano disse il nome del suo padrone. Poi, subito dopo, chiese al rabbino: “E tu, per chi cammini?”.
Questa domanda, conclude la storia, si conficcò nel cuore del rabbino.

LE ORME DEL CREATORE

Un arabo accompagnava attraverso il deserto un esploratore francese. E ogni mattino si prostrava a terra per adorare e pregare Dio.
Un giorno il francese gli disse: “Tu sei un ingenuo: Dio non esiste, difatti tu non l’hai mai visto nè toccato”.
L’arabo non rispose.
Poco dopo il francese notò delle orme di cammello ed esclamò: “Guarda, di qui è; passato un cammello”.
E l’arabo rispose: “Signore, lei è; un ingenuo, il cammello non l’ha nè visto nè toccato”.
“Sciocco sei tu! Si vedono le orme!”, replicò il francese.
Allora l’arabo, puntando il dito verso il sole: “Ecco le orme del Creatore: Dio c’è;”…

IL PROFUMO DENTRO DI NOI

Gli indù raccontano una strana leggenda. La leggenda del capriolo delle montagne.
Tanti anni fa, c’era un capriolo che sentiva continuamente nelle narici un fragrante profumo di muschio. Saliva le verdi pendici dei monti e sentiva quel profumo stupendo, penetrante, dolcissimo. Sfrecciava nella foresta, e quel profumo era nell’aria, tutt’intorno a lui.
Il capriolo non riusciva a capire da dove provenisse quel profumo che tanto lo turbava. Era come il richiamo di un flauto a cui non si può resistere. Perciò il capriolo prese a correre di bosco in bosco alla ricerca della fonte di quello straordinario e conturbante profumo.
Quella ricerca divenne la sua ossessione. Il povero animale non badava più nè a mangiare, nè a bere, nè a dormire, nè a nient’altro. Esso non sapeva donde venisse il richiamo del profumo, ma si sentiva costretto a inseguirlo attraverso burroni, foreste e colline, finchè affamato, esausto, stanco morto, andò avanti a casaccio, scivolò da una roccia e cadde ferendosi mortalmente.
Le sue ferite erano dolorose e profonde. Il capriolo si leccò il petto sanguinante e, in quel momento, scoprì la cosa più incredibile. Il profumo, quel profumo che lo aveva sconvolto, era proprio lì, attaccato al suo corpo, nella speciale “sacca” porta muschio che hanno tutti i caprioli della sua specie.
Il povero animale respirò profondamente il profumo, ma era troppo tardi…

IL FALENINO E LA STELLA (OSARE)

Una piccola falena d’animo delicato s’invaghì una volta di una stella. Ne parlò alla madre e questa gli consigliò d’invaghirsi invece di un abat-jour. “Le stelle non son fatte per svolazzarci dietro”, gli spiegò. “Le lampade, a quelle sì puoi svolazzare dietro”.
“Almeno lì approdi a qualcosa”, disse il padre. “Andando dietro alle stelle non approdi a niente”.
Ma il falenino non diede ascolto nè all’uno nè all’altra. Ogni sera, al tramonto, quando la stella spuntava s’avviava in volo verso di essa e ogni mattina, all’alba, se ne tornava a casa stremato dall’immane e vana fatica.
Un giorno il padre lo chiamò e gli disse: “Non ti bruci un’ala da mesi, ragazzo mio, e ho paura che non te la brucerai mai. Tutti i tuoi fratelli si sono bruciacchiati ben bene volteggiando intorno ai lampioni di strada, e tutte le tue sorelle si sono scottate a dovere intorno alle lampade di casa. Su avanti, datti da fare, vai a prenderti una bella scottatura! Un falenotto forte e robusto come te senza neppure un segno addosso!”.
Il falenino lasciò la casa paterna ma non andò a volteggiare intorno ai lampioni di strada nè; intorno alle lampade di casa: continuò ostinatamente i suoi tentativi di raggiungere la stella, che era lontana migliaia di anni luce. Lui credeva invece che fosse impigliata tra i rami più alti di un olmo.
Provare e riprovare, puntando alla stella, notte dopo notte, gli dava un certo piacere, tanto che visse fino a tardissima età. I genitori, i fratelli e le sorelle erano invece morti tutti bruciati ancora giovanissimi.

SOTTO LA STUFA (CERCARE)

Ai giovani che venivano da lui per la prima volta, Rabbi Bunam raccontava la storia di Rabbi Ezechia, figlio di Rabbi Jekel di Cracovia. Dopo anni e anni di dura miseria, che però non avevano scosso la sua fiducia in Dio, questi ricevette in sogno l’ordine di andare a Praga per cercare un tesoro sotto il ponte che conduce al palazzo reale.
Quando il sogno si ripetè per la terza volta, Ezechia si mise in cammino e raggiunse a piedi Praga. Ma il ponte era sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle ed egli non ebbe il coraggio di scavare nel luogo indicato. Tuttavia tornava al ponte tutte le mattine, girandovi attorno fino a sera. Alla fine il capitano delle guardie, che aveva notato il suo andirivieni, gli si avvicinò e gli chiese amichevolmente se avesse perso qualcosa o se aspettasse qualcuno. Ezechia gli raccontò il sogno che lo aveva spinto fin lì dal suo lontano paese. Il capitano scoppiò a ridere: “E tu, poveraccio, per dar retta a un sogno sei venuto fin qui a piedi? Ah, ah, ah! Stai fresco a fidarti dei sogni! Allora anch’io avrei dovuto mettermi in cammino per obbedire a un sogno e andare fino a Cracovia, in casa di un ebreo, un certo Ezechia, figlio di Jekel, per cercare un tesoro sotto la stufa! Ezechia, figlio di Jekel, ma scherzi? Mi vedo proprio a entrare e mettere a soqquadro tutte le case in una città in cui metà degli ebrei si chiamano Ezechia e l’altra metà Jekel!”.
E rise nuovamente. Ezechia lo salutò, tornò a casa sua e cercò sotto la stufa.
Trovò il tesoro e lo dissotterrò e con esso costruì la sinagoga del suo villaggio.

LA TRAPPOLA PER TOPI

Un topo stava guardando attraverso un buco nella parete, spiando quello che il contadino e sua moglie stavano facendo. Avevano appena ricevuto un pacco e lo stavano scartando tutti contenti.
“Sicuramente conterrà del cibo” pensò il topo.
Ma quando il pacco fu aperto il piccolo roditore rimase senza fiato. Quella che il contadino teneva in mano non era roba da mangiare, era una trappola per topi!
Spaventato, il topo cominciò a correre per la fattoria gridando: “State attenti! C’è; una trappola per topi in casa! C’è; una trappola per topi in casa!”.
La gallina, che stava scavando per terra alla ricerca di semi e vermetti, alzò la testa e disse: “Mi scusi, signor Topo, capisco che questo può costituire per lei un grande problema, ma una trappola per topi non mi riguarda assolutamente. Sinceramente non mi sento coinvolta nella sua paura”. E, detto questo, si rimise al lavoro per procurarsi il pranzo.
Il topo continuò a correre gridando: “State tutti attenti! C’è; una trappola per topi in casa! C’è; una trappola per topi in casa!”. Casualmente incontrò il maiale che gli disse con aria accattivante: “Sono veramente dispiaciuto per lei, signor Topo, veramente dispiaciuto, mi creda. ma non c’è; assolutamente nulla che io possa fare”.
Ma il topo aveva già ripreso a correre verso la stalla dove una placida mucca ruminava, sonnecchiando, il suo fieno.
“Una trappola per topi? – gli disse – E lei crede che costituisca per me un grave pericolo?”. Fece una risata e riprese a mangiare tranquillamente.
Il topo, triste e sconsolato, ritornò alla sua tana preparandosi a dover affrontare la trappola tutto da solo.
Proprio quella notte, in tutta la casa si sentì un fortissimo rumore, proprio il suono della trappola che aveva catturato la sua preda. La moglie del contadino schizzò fuori dal letto per vedere cosa c’era nella trappola ma, a causa dell’oscurità, non si accorse che nella trappola era stato preso un grosso serpente velenoso. Il serpente la morse.
Subito il contadino, svegliato dalle urla di lei, la caricò sulla macchina e la portò all’ospedale dove venne sottoposta alle prime cure. Quando ritornò a casa, qualche giorno dopo, stava meglio ma aveva la febbre alta. Ora tutti sanno che quando uno ha la febbre non c’è; niente di meglio che un buon brodo di gallina. E così il contadino andò nel pollaio e uccise la gallina trasformandola nell’ingrediente principale del suo brodo. La donna non si ristabiliva e la notizia del suo stato si diffuse presso i parenti che la vennero a trovare e a farle compagnia. Allora il contadino pensò che, per dare da mangiare a tutti, avrebbe fatto meglio a macellare il suo maiale. E così fece.
Finalmente la donna guarì e il marito, pieno di gioia, organizzò una grande festa a base di vino novello e bistecche cotte sul barbecue. Inutile dire quale animale fornì la materia prima.


IL CANE ALLO SPECCHIO

Vagabondando qua e là, un grosso cane finì in una stanza in cui le pareti erano dei grandi specchi.
Così si vide improvvisamente circondato da cani. Si infuriò, cominciò a digrignare i denti e a ringhiare. Tutti i cani delle pareti, naturalmente, fecero altrettanto, scoprendo le loro minacciose zanne.
Il cane cominciò a girare vorticosamente su se stesso per difendersi contro gli attaccanti, poi abbaiando rabbiosamente si scagliò contro uno dei suoi presunti assalitori.
Finì a terra tramortito e sanguinante per il tremendo urto contro lo specchio.
Avesse scodinzolato in modo amichevole una sola volta, tutti i cani degli specchi l’avrebbero ricambiato. E sarebbe stato un incontro festoso.

SI TROVA SEMPRE CIò CHE SI ASPETTA DI TROVARE

C’era una volta un uomo seduto ai bordi di un’oasi all’entrata di una città del Medio Oriente. Un giovane si avvicinò e gli domandò: “Non sono mai venuto da queste parti. Come sono gli abitanti di questa città?”.
Il vecchio gli rispose con una domanda: “Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?”.
“Egoisti e cattivi. Per questo sono stato contento di partire di là”.
“Così sono gli abitanti di questa città”, gli rispose il vecchio.
Poco dopo, un altro giovane si avvicinò all’uomo egli pose la stessa domanda: “Sono appena arrivato in questo paese. Come sono gli abitanti di questa città?”.
L’uomo rispose di nuovo con la stessa domanda: “Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?”.
“Erano buoni, generosi, ospitali, onesti. Avevo tanti amici e ho fatto molta fatica a lasciarli”.
“Anche gli abitanti di questa città sono così”, rispose il vecchio.
Un mercante che aveva portato i suoi cammelli all’abbeveraggio aveva udito le conversazioni e quando il secondo giovane si allontanò si rivolse al vecchio in tono di rimprovero: “Come puoi dare due risposte completamente differenti alla stessa domanda posta da due persone?”.
“Figlio mio”, rispose il vecchio, “ciascuno porta il suo universo nel cuore. Chi non ha trovato niente di buono in passato, non troverà niente di buono neanche qui. Al contrario, colui che aveva degli amici nell’altra città troverà anche qui degli amici leali e fedeli. Perchè, vedi, le persone sono ciò che noi troviamo in loro”.

LA FORESTA

Durante le vacanze, un uomo era uscito a passeggio in una foresta che si estendeva ai margini del villaggio dove si trovava. Errò per un paio d’ore e si perse. Girò a lungo nel tentativo di trovare la strada per tornare al villaggio, provò tutti i sentieri, ma nessuno lo portava fuori dalla foresta.
Improvvisamente si imbattè in un’altra persona che come lui stava camminando nella foresta e gridò: “Grazie a Dio c’è; un altro essere umano. Mi può indicare la strada per tornare in paese?”.
L’altro uomo gli rispose: “No, purtroppo anch’io mi sono perso. Ma c’è; un modo per poterci essere d’aiuto: è; quello di dirci quali sentieri abbiamo già provato inutilmente. Questo ci aiuterà a trovare quello che ci porterà fuori”.

IL CIECO E LO ZOPPO

Un giorno, in un bosco molto frequentato scoppiò un incendio. Tutti fuggirono, presi dal panico. Rimasero soltanto un cieco e uno zoppo. In preda alla paura, il cieco si stava dirigendo proprio verso il fronte dell’incendio.
“Non di là!” gli gridò lo zoppo. “Finirai nel fuoco!”.
“Da che parte, allora?” chiese il cieco.
“Io posso indicarti la strada” rispose lo zoppo “ma non posso correre. Se tu mi prendi sulle tue spalle, potremmo scappare tutti e due molto più in fretta e metterci al sicuro”.
Il cieco seguì il consiglio dello zoppo. E i due si salvarono insieme.

LA FONTANA

In un villaggio islamico del Libano un piccolo gruppo di persone divenne cristiano. Immediatamente si chiusero per loro tutte le porte della comunità. Gli uomini non potevano più stare con gli altri uomini in piazza a fumare e chiacchierare, le donne non potevano più attingere acqua alla fontana del villaggio. I nuovi cristiani furono costretti a scavarsi una fontana per conto loro.
Un giorno la fontana del villaggio si inaridì e seccò. Allora i cristiani invitarono i loro compaesani a venire ad attingere acqua alla loro fontana. Fecero di più: sulle loro case appesero un piccolo cartello che diceva: “Qui abitano dei cristiani”.
Ciascuno sapeva così che in quella casa avrebbe trovato un aiuto e una mano tesa.

LE TRE PIPE

Un vecchio saggio indiano dava questo consiglio agli irruenti giovani della sua tribù: “Quando sei veramente adirato con qualcuno che ti ha mortalmente offeso e decidi di ucciderlo per lavare l’onta, prima di partire siediti, carica ben bene di tabacco una pipa e fumala.
Finita la prima pipa, ti accorgerai che la morte, tutto sommato, è; una punizione troppo grave per la colpa commessa. Ti verrà in mente, allora, di andare a infliggergli una solenne bastonatura.
Prima di impugnare un grosso randello, siediti, carica una seconda pipa e fumala fino in fondo. Alla fine penserai che degli insulti forti e coloriti potrebbero benissimo sostituire le bastonate.
Bene! Quando stai per andare a insultare chi ti ha offeso, siediti, carica la terza pipa, fumala, e quando avrai finito, avrai solo voglia di riconciliarti con quella persona”.

LA STORIA DEI COLORI

In principio i colori non esistevano, Dio aveva già creato il mondo, il cielo, il mare, le, montagne, le piante, i fiori e gli animali. Era tutto a posto, ma tutto in bianco e nero. La fantasia del Creatore però non poteva accontentarsi di un mondo così monotono e triste, e dal suo Amore fece esplodere la brillantezza del verde, lo splendore del giallo, la profondità del blu, il calore del rosso e tutti gli altri colori così belli e diversi che è; impossibile descriverli.
Appena nati i colori erano pieni di entusiasmo e scorrazzavano felici a prendere possesso del creato, ma le cose non erano per niente semplici: l’azzurro riempì subito il cielo e il giallo colorò il sole, ma presto arrivò il grigio e li scacciò, portando un sacco di nuvole, poi cadde la notte e venne il blu e poi il nero. Il verde andò sulle foglie e sulle piante ma quando arrivò l’autunno dovette cedere il posto al giallo, al marrone, al rosso…
I colori cominciarono a litigare tra di loro, perchè non erano capaci di stare insieme, ognuno voleva tutto per sè e non accettava le presenza degli altri: anche gli animali si trovavano a cambiare il colore della pelliccia o delle piume, con strani accostamenti oppure macchie e striature a causa della guerra tra i colori.
Poco alla volta la situazione peggiorò fino a diventare insostenibile: tutto cambiava di colore vorticosamente e non si poteva fissare gli occhi un attimo su qualcosa che subito cambiava di colore. I colori stessi, in origine così vivi e brillanti, avevano perso la loro bellezza e procuravano nausea.
“Ora basta! – disse il Padreterno – non posso lasciare il mondo in questo stato!”, e con tutto l’impegno di cui era capace creò l’arcobaleno. Era più bello di qualunque cosa si potesse mai immaginare, e subito i colori smisero la loro folle giostra per fermarsi a contemplare la nuova creatura… poi tutti vollero farne parte, e con immensa meraviglia scoprirono che c’era un posto preciso per ciascuno: il rosso accanto al giallo, in mezzo l’arancione, poi il verde, l’azzurro il blu… con mille altre nuove sfumature una più bella dell’altra!
Era incredibile, ma i colori avevano fatto pace. Dopo la tempesta che aveva sconvolto il creato ora andavano tutti d’accordo, con gioia si cedevano il passo l’un l’altro, si prendevano per mano in accostamenti da sogno, si abbracciavano contenti per creare nuove tinte; il mondo era colorato dall’armonia dell’Amore.
Anche oggi i colori vivono in pace ed armonia; talvolta per ricordare l’origine della loro concordia (o per insegnarla ad altri) si riuniscono festanti nell’arcobaleno: la gioia dei nostri occhi e del nostro cuore, magico ponte che unisce il cielo e la terra, l’anima e il corpo, il passato e il futuro.

L’AVVENTURA DEI RICCI

Un’estate, una famiglia di ricci venne ad abitare nella foresta. Il tempo era bello, faceva caldo, e tutto il giorno i ricci si divertivano sotto gli alberi. Folleggiavano nei campi, nei dintorni della foresta, giocavano a nascondino tra i fiori, acchiappavano mosche per nutrirsi e, la notte, si addormentavano sul muschio, nei pressi delle tane. Un giorno, videro una foglia cadere da un albero: era autunno. Giocarono a rincorrere la foglia, dietro le foglie che cadevano sempre più numerose; ed essendo le notti diventate un po’ più fredde, dormivano, sotto le foglie secche.
Faceva però sempre più freddo. Nel fiume a volte si formava il ghiaccio.
La neve aveva ricoperto le foglie. I ricci tremavano tutto il giorno, e la notte non potevano chiudere occhio, tanto avevano freddo.
Così una sera, decisero di stringersi uno accanto all’altro per riscaldarsi, ma fuggirono ben presto ai quattro angoli della foresta: con tutti quegli aghi si erano feriti il naso e le zampe. Timidamente, si avvicinarono ancora, ma di nuovo si punsero il muso. E tutte le volte che uno correva verso l’altro, capitava là stessa cosa.
Era assolutamente necessario trovare un modo per stare vicini: gli uccelli si tenevano caldo uno con l’altro, così pure i conigli, le talpe e tutti gli animali.
Allora, con dolcezza, a poco a poco, sera dopo sera, per potersi scaldare senza pungersi, si accostarono l’uno all’altro, ritirarono i loro aculei e, con mille precauzioni, trovarono infine la giusta misura.
Il vento che soffiava non dava più fastidio; ora potevano dormire al caldo tutti insieme.

IL PAESE DEI CANI

C’era una volta uno strano piccolo paese. Era composto in tutto di novantanove casette, e ogni casetta aveva un giardinetto con un cancelletto, e dietro il cancelletto un cane che abbaiava.
Facciamo un esempio. Fido era il cane della casetta numero uno e ne proteggeva gelosamente gli abitanti, e per farlo a dovere abbaiava con impegno ogni volta che vedeva passare qualcuno degli abitanti delle altre novantotto casette, uomo, donna o bambino.
Lo stesso facevano gli altri novantotto cani, e avevano un gran da fare ad abbaiare di giorno e di notte, perchè c’era sempre qualcuno per la strada.
Facciamo un altro esempio. Il signore che abitava la casetta numero 99, rientrando dal lavoro, doveva passare davanti a novantotto casette, dunque a novantotto cani che gli abbaiavano dietro mostrandogli fauci e facendogli capire che avrebbero volentieri affondato le zanne nel fondo dei suoi pantaloni. Lo stesso capitava agli abitanti delle altre casette, e per strada c’era sempre qualcuno spaventato.
Figurarsi se capitava un forestiero. Allora i novantanove cani abbaiavano tutti insieme, le novantanove massaie uscivano a vedere che succedeva, poi rientravano precipitosamente in casa, sprangavano la porta, passavano in fretta gli avvolgibili e stavano zitte zitte dietro le finestre a spiare fin che il forestiero non fosse passato.
A forza di sentir abbaiare i cani gli abitanti di quel paese erano diventati tutti un po’ sordi, e tra loro parlavano pochissimo. Del resto non avevano mai avuto grandi cose da dire e da ascoltare.
Pian piano, a starsene sempre zitti e immusoniti, disimpararono anche a parlare. E alla fine capitò che i padroni di casa si misero ad abbaiare come i loro cani. Loro forse credevano di parlare, ma quando aprivano la bocca si udiva una specie di “bau bau” che faceva venire la pelle d’oca. E così, abbaiavano i cani, abbaiavano gli uomini e le donne, abbaiavano i bambini mentre giocavano, le novantanove villette sembravano diventate novantanove canili.
Però erano graziose, avevano tendine pulite dietro i vetri e perfino gerani e piantine grasse sui balconi.
Una volta capitò da quelle parti Giovannino Perdigiorno, durante uno dei suoi famosi viaggi. I novantanove cani lo accolsero con un concerto che avrebbe fatto diventare nervoso un paracarro. Domandò un’informazione a una donna ed essa gli rispose abbaiando. Fece un complimento a un bambino e ne ricevette in cambio un ululato.
“Ho capito, – concluse Giovannino – E’ un’epidemia”.
Si fece ricevere dal sindaco e gli disse: “Io un rimedio sicuro ce l’avrei. Primo, fate abbattere tutti i cancelletti, tanto i giardini cresceranno benissimo anche senza inferriate. Secondo, mandate i cani a caccia, si divertiranno di più e diventeranno più gentili. Terzo, fate una bella festa da ballo e dopo il primo valzer imparerete a parlare di nuovo”.
Il sindaco gli rispose: “Bau! Bau”!
“Ho capito, – disse Giovannino, – il peggior malato è; quello che crede di essere sano”.
E se ne andò per i fatti suoi.
Di notte, se sentite abbaiare molti cani insieme in lontananza, può darsi che siano dei cani cani, ma può anche darsi che siano gli abitanti di quello strano, piccolo paese.


IL FUOCO

Sei persone, colte dal caso nel buio di una gelida nottata, su un’isola deserta, si ritrovarono ciascuna con un pezzo di legno in mano. Non c’era altra legna nell’isola persa nelle brume del mare del Nord.
Al centro un piccolo fuoco moriva lentamente per mancanza di combustibile. Il freddo si faceva sempre più insopportabile.
La prima persona era una donna, ma un guizzo della fiamma illuminò il volto di un immigrato dalla pelle scura. La donna se ne accorse. Strinse il pugno intorno al suo pezzo di legno. Perchè consumare il suo legno per scaldare uno scansafatiche venuto a rubare pane e lavoro?
L’uomo che stava al suo fianco vide uno che non era del suo partito. Mai e poi mai avrebbe sprecato il suo bel pezzo di legno per un avversario politico.
La terza persona era vestita malamente e si avvolse ancora di più nel giaccone bisunto, nascondendo il suo pezzo di legno. Il suo vicino era certamente ricco. Perchè doveva usare il suo ramo per un ozioso riccone?
Il ricco sedeva pensando ai suoi beni, alle due ville, alle quattro automobili e al sostanzioso conto in banca. Le batterie del suo telefonino erano scariche, doveva conservare il suo pezzo di legno a tutti i costi e non consumarlo per quei pigri e inetti.
Il volto scuro dell’immigrato era una smorfia di vendetta nella fievole luce del fuoco ormai spento. Stringeva forte il pugno intorno al suo pezzo di legno. Sapeva bene che tutti quei bianchi lo disprezzavano. Non avrebbe mai messo il suo pezzo di legno nelle braci del fuoco. Era arrivato il momento della vendetta.
L’ultimo membro di quel mesto gruppetto era un tipo gretto e diffidente. Non faceva nulla se non per profitto. Dare soltanto a chi dà, era il suo motto preferito. Me lo devono pagare caro questo pezzo di legno, pensava.
Li trovarono così, con i pezzi di legno stretti nei pugni, immobili nella morte per assideramento.
Non erano morti per il freddo di fuori, erano morti per il freddo di dentro.

DUE TESTE

Sulle sponde d’un lago nell’India del Nord, c’era una volta uno strano uccello che aveva due teste, una a destra e una a sinistra. Due teste ma un corpo solo.
Un giorno, mentre gironzolava in cerca di cibo, con gli occhi della testa di destra vide un favo di miele selvatico, e subito vi si buttò sopra.
La testa di sinistra disse:
“Dammene anche a me”.
Ma la testa di destra non diede ascolto, e se lo beccò tutto in pochi istanti. Allora la testa di sinistra giurò vendetta; e mentre l’uccello vagava per un bosco, ecco a sinistra certe bacche amarissime. La testa di sinistra le scorse per prima e, pur sapendo che non erano buone e avrebbero fatto male allo stomaco, ne beccò quante potè.
E nel frattempo pensava:
“Poi avremo mal di pancia; ma gli sta bene, a quell’egoista dell’altra parte; così impara la solidarietà”.
Poco dopo, l’uccello si sentì colto da atroci dolori: le bacche erano velenose, e in breve tempo gli causarono la morte.
Morirono ugualmente le due teste, quella di destra e quella di sinistra, perchè nessuna delle due aveva avuto cervello.

LA STORIA DEI BISCOTTI

Una ragazza stava aspettando il suo volo in una sala d’attesa di un grande aeroporto.
Siccome avrebbe dovuto aspettare per molto tempo,decise di comprare un libro per ammazzare il tempo.
Compro’ anche un pacchetto di biscotti. Si sedette nella sala VIP Per stare più tranquilla.
Accanto a lei c’era la sedia con i biscotti e dall’altro lato un signore che stava leggendo il giornale. Quando lei comincio’ a prendere il primo biscotto, anche l’uomo ne prese uno, lei si senti’ indignata ma non Disse nulla e continuo’ a leggere il suo libro.
Tra se’ penso’ “ma tu guarda se solo avessi un po’ piu’ di coraggio gli avrei gia’ dato un pugno…”
Cosi’ ogni volta che lei prendeva un biscotto, l’uomo accanto a lei, senza fare un minimo cenno ne prendeva uno anche lui.
Continuarono fino a che non rimase solo un biscotto e la donna penso’ “ah, adesso voglio proprio vedere cosa mi dice quando saranno finit tutti!!”
L’uomo prese l’ultimo biscotto e lo divise a meta’!
“Ah!, questo e’ troppo” penso’ e comincio a sbuffare indignata, si prese le sue cose, il libro, la sua borsa e si incammino’ verso l’uscita della sala d’attesa.
Quando si senti’ un po’ meglio e la rabbia era passata, si sedette in una sedia lungo il corridoio per non attirare troppo l’attenzione ed evitare altri dispiaceri.
Chiuse il libro e apri’ la borsa per infilarlo dentro quando… nell’aprire la borsa vide che il pacchetto di biscotti era ancora tutto intero nel suo interno.
Senti’ tanta vergogna e capi’ solo allora che il pacchetto di biscotti uguale al suo era di quell’ uomo seduto accanto a lei che pero’ aveva diviso i suoi biscotti con lei senza sentirsi indignato, nervoso o superiore,al contrario di lei che aveva sbuffato e addirittura si sentiva ferita nell’orgoglio.

CAROTE, UOVA O CAFFE’?

Una figlia si lamentava con suo padre circa la sua vita e di come le cose le risultavano tanto difficili. Non sapeva come fare per proseguire e credeva di darsi per vinta. Era stanca di lottare. Sembrava che quando risolveva un problema, ne apparisse un altro.
Suo padre, uno chef di cucina, la portò al suo posto di lavoro. Lì riempì tre pentole con acqua e le pose sul fuoco. Quando l’acqua delle tre pentole stava bollendo, in una collocò carote, in un’altra collocò uova e nell’ultima collocò grani di caffè;. Lasciò bollire l’acqua senza dire parola.
La figlia aspettò impazientemente, domandandosi cosa stesse facendo il padre. Dopo venti minuti egli spense il fuoco. Tirò fuori le carote e le collocò in una scodella. Tirò fuori le uova e le collocò in un altro piatto. Finalmente, colò il caffè; e lo mise in un terzo recipiente.
Guardando sua figlia, le chiese:
‘Cara figlia mia, carote, uova o caffè;?’
La fece avvicinare e le chiese che toccasse le carote: ella lo fece e notò che erano soffici.
Le chiese quindi di prendere un uovo e di romperlo: mentre lo tirava fuori dal guscio, osservò l’uovo sodo.
Poi le chiese che provasse il caffè;, ed ella sorrise mentre godeva del suo ricco aroma.
Umilmente la figlia domandò:
‘Cosa significa questo, padre?’
Egli le spiegò che i tre elementi avevano affrontato la stessa avversità, ‘l’acqua bollente’, ma avevano reagito in maniera differente. La carota arrivò all’acqua forte, dura, superba; ma dopo avere passato per l’acqua, bollendo era diventata debole, facile da disfare. L’uovo era arrivato all’acqua fragile, il suo guscio fine proteggeva il suo interno molle, ma dopo essere stato in acqua, bollendo, il suo interno si era indurito. Invece, i grani di caffè;, erano unici: dopo essere stati in acqua, bollendo, avevano cambiato l’acqua.
‘Quale sei tu, figlia?’, le chiese.
‘Quando l’avversità suona alla tua porta, come rispondi?
Sei una carota che sembra forte, ma quando l’avversità ed il dolore ti toccano, diventi debole e perdi la tua forza? Sei un uovo che comincia con un cuore malleabile e buono di spirito, ma che dopo una morte, una separazione, un licenziamento, una pietra durante il tragitto diventa duro e rigido?
Esternamente ti vedi uguale, ma sei amareggiata ed aspra, con uno spirito ed un cuore indurito?
O sei come un grano di caffè? Il caffè cambia l’acqua, l’elemento che gli causa dolore. Quando l’acqua arriva al punto di ebollizione, il caffè raggiunge il suo miglior sapore. Se sei come il grano di caffè, quando le cose si mettono peggio, tu reagisci in forma positiva, senza lasciarti vincere, e fai si che le cose che ti succedono migliorino, che esista sempre una luce che illumina la tua strada davanti all’avversità e quella della gente che ti circonda. Per questo motivo non mancare mai di diffondere con la tua forza e positività il dolce aroma del caffè!